Stamani mattina (sabato 18 ottobre, n.d.r.) sono entrata a Palazzo Blu, dove si respirava un’aria frizzante, quella che caratterizza l’attesa di un grande evento ed a ragione, perché dal 24 ottobre 2024 al 25 febbraio 2025 saranno esposte 200 opere, tra cui capolavori mai esposti prima, dell’artista della vita che fluttua, Hiroshige Hokusai. Di chi? Eh già, la domanda sorge spesso spontanea, poiché di questo, che può essere considerato tra i più importanti artisti giapponesi, fonte d’ispirazione di Monet, Van Gogh, Gauguin, precursore dei manga come li conosciamo oggi, si conosce la sua opera più iconica, la Grande onda di Kanagawa, ma non il nome e tantomeno la sua storia e la sua arte. Iniziamo quindi a conoscere meglio lui, le sue opere e l’epoca in cui visse. Hokusai significa letteralmente “studio della stella polare” ed è il nome d’arte che Katsushika Sori, nato a ottobre o a novembre del 1790 a Edo, scelse a 34 anni, poiché, oltre ad essere di buon auspicio, è anche la figura in cui si incarna la divinità buddista Myoken, protettrice dei viaggiatori notturni, cara a Hokusai.
Rimarrà maestro indiscusso dell’ukiyo-e, letteralmente “immagini del mondo fluttuante”, corrente artistica che si sviluppa dal 17° al 19° secolo in Giappone, nata come espressione dei gusti e delle mode del momento, ampliatasi soprattutto in seguito al rapido spostamento dalle campagne all’area del Kantō, quando Edo (l’attuale Tokyo) fu scelta come capitale amministrativa e politica, trasformando così un piccolo villaggio di pescatori, nel giro di un secolo, nella metropoli più popolata al mondo. Attraverso le loro opere gli artisti rappresentavano scene di vita quotidiana, paesaggi, attori kabuki, geishe e altre figure emblematiche, in un mondo in bilico tra reale e sogno, tra l’effimero e il perenne. Questo perché nel periodo Edo il termine ukiyo assume due significati, mantenendo da una parte quello originario, in cui si esprime il concetto di impermanenza e fugacità legato al buddismo e, dall’altra, quello legato alla descrizione di uno stile di vita edonistico e indulgente. La tecnica xilografica con cui veniva prodotto un ukiyo-e era molto complessa e richiedeva il coinvolgimento di diversi artigiani, che in un corale gioco di squadra riuscivano a realizzare l’opera, che poteva essere riprodotta in migliaia di copie. L’artista realizzava il disegno originale su carta, che veniva fatta aderire dagli incisori su una matrice di legno di ciliegio per essere poi scolpita per dar vita alla prima prova di stampa con il solo nero, a cui poi sarebbero stati aggiunti tanti colori quante erano le matrici scolpite e inchiostrate, poiché per ogni colore veniva creata una traccia. Questa tecnica permetteva una produzione in serie, garantendo al contempo un’elevata qualità artistica per ogni singola opera realizzata. Hokusai fu anche un grande innovatore e sperimentatore, capace di captare e valorizzare tutte le novità che arrivavano in Giappone. Riuscì ad esaltare la bellezza dell’inchiostro blu, “Berlin blue” appena importato, facendone il protagonista principale delle sue opere, stampando solo o con una prevalenza di blu, oppure facendone risaltare la brillantezza grazie alla tecnica di gradazione del colore, denominata bokashi, applicata all’acqua e al cielo. Inoltre, assorbì immediatamente nelle sue opere anche la prospettiva, di derivazione occidentale, introdotta in Giappone alla fine del 1740.
Giunti alla fine di questo percorso, lasciamo questo poliedrico e prolifico artista con quanto da lui stesso scritto, forse con un po’ di falsa modestia, nella postfazione delle Cento vedute del Monte Fuji, ultima sua grande opera: “Dall’età di sei anni ho la mania di copiare la forma delle cose, dai cinquanta in poi ho pubblicato molti disegni, ma si può dire che tra quello che ho raffigurato fino ai settant’anni non c’è nulla di considerevole. A settantatré ho cominciato a intuire la struttura di animali e uccelli, insetti e pesci e la natura di erbe e piante, perciò a ottantasei migliorerò ancora, a novanta avrò ancor più il senso recondito delle cose, mentre a cento anni avrò forse veramente compreso la dimensione del divino. Quando ne avrò centodieci anche un punto o una linea saranno dotati di vita propria e spero che quelli che godranno di lunga vita potranno verificare se quanto affermo sarà vero”.Saia